Intervista
14 Maggio 2025

Mario Botta | Storia, Oblio, Architettura

Intervista di Luca Ribichini

Luca Ribichini – Dal disegno alla materia dell’architettura, dallo spazio sacro allo spazio pubblico, dalla riflessione sulla storia alla progettazione del contemporaneo, hai sempre focalizzato il tuo pensiero sulla ricerca delle radici culturali che permettono di comprendere il presente e di individuare possibili traiettorie per il nostro futuro. Nei tuoi disegni appare evidente una continua ricerca di senso storico. È l’architettura che trova nel passato “un amico”, come diceva Louis Kahn? 

Mario Botta – Tu hai fatto una sintesi di dieci parole che concentrano tutto l’essere architettonico del nostro tempo. Dai temi, all’impegno, alla scommessa, ai rischi e al fatto pratico di testimoniare attraverso il costruito tutti questi problemi che hai citato.

Io credo che l’architettura sia uno strumento particolare, forse più denso anche delle altre forme artistiche, senz’altro più pregnante della musica, della pittura, della scultura, perché lascia un segno fisico di queste trasformazioni e di queste speranze, la consapevolezza che uno ha di cambiare un pezzettino di mondo che tocca l’organizzazione e la forma dello spazio di vita dell’uomo.

Da questo punto di vista l’architettura ha una responsabilità fisica: difatti le guerre distruggono proprio le architetture. Distruggono gli uomini, ma anche il lavoro dell’uomo che è testimonianza del vivere collettivo, e quando vediamo queste rovine soffriamo nel pensare che quelle presenze altro non sono che i risultati di una fatica, di un’economia e di un lavoro fatto dagli uomini per avere, attraverso l’architettura, un segno del loro vivere e della loro presenza, che in un attimo vengono spazzati via.

L’architettura contempla in sé molte cose e purtroppo, in questo momento storico, viene usata spesso come business. È un paradosso il fatto che non importa cosa si costruisca: i fondi di investimento spesso costruiscono per lasciare il vuoto, sono contenti quando gli interventi non sono abitati perché il business arriva comunque. Il fatto che, domani, si riesca a vendere al doppio o al triplo, permette anche di aspettare che il valore cresca.
Ma in tutto ciò non c’è più un bisogno dell’uomo, è un’altra cosa. Noi abbiamo avuto la sfortuna, della nostra generazione, di vivere questo momento storico e di vedere quindi le migliori architetture della storia del mondo, in questo preciso momento, sradicate dalla loro funzione primaria. 

Se tu sfogli il libro Il cielo in terra, un secolo di chiese e di cappelle nell’architettura moderna e contemporanea, puoi vedere uno spaccato del XX secolo che ti fa meravigliare di che cosa l’architettura ha saputo fare: perché trovi Le Corbusier, Louis Kahn, Alvar Aalto, ci sono tutti i più grandi architetti che hanno costruito una chiesa, che non ha alcuna funzione diretta se non quella di parlarti dello spirito.

Dunque noi siamo condannati a dover avere una visione critica di questo momento storico, perché l’architettura segna il territorio per gravità, per forma fisica ed espressiva – non è una scultura che può essere rimossa e scomparire – e per questo ci rendiamo conto della distanza che c’è tra il valore del costruire, che diamo noi all’architettura, rispetto a quello del mercato immobiliare che invece esalta ciò che è più banale: è il mercato delle città attuali. Questo è paradossale perché in origine l’architettura era invece legata al valore. Una chiesa costruita da Antoni Gaudí costituiva un valore aggiunto. Invece il fondo di investimento, che ti comanda oggi, ti spinge alla massima banalità.

Quindi questa tua premessa ha rovesciato i valori della testimonianza dell’architettura perché la società si è spappolata, oramai non risponde più neanche alla legge fisica del costruire: a fatica regge il fatto che il costruito, se potesse essere virtuale, andrebbe bene lo stesso.

Mario Botta, Chiesa di San Giovanni Battista, Mogno, Svizzera, 1986-1996 – Schizzo

L R – Il tuo linguaggio ha influenzato generazioni di architetti. Attraverso i tuoi scritti, i tuoi disegni, le tue architetture, hai dimostrato che la poetica degli architetti può essere a servizio della comunità, del bene comune, per costruire le nostre città a partire dalle persone che le abitano, prefigurando nuove relazioni spaziali. Non solo estetica, ma anche le relazioni profonde per la comunità rendono possibile pensare alla città del futuro?

M B – La nostra generazione è andata sulla luna, ma non siamo riusciti a costruire una città più appropriata al vivere contemporaneo. Tuttavia la città resta nella storia dell’evoluzione come forma di convivenza civile e sociale, la più bella, la più performante, la più funzionale, la più intelligente; diventa il meglio che l’umanità sia riuscita a costruire nella storia. Quindi abbiamo un territorio di memoria attraverso la città che è fondamentale; perché non è un’opera di un uomo, ma di molte persone, di molte generazioni; è la forma della storia che noi abbiamo vissuto e da questo punto di vista questa è la vera eredità di cui noi architetti abbiamo e dobbiamo alimentare una lettura profonda. Dico questo perché non vedo quale alternativa del vivere potrebbe esistere, diversamente, rispetto alla centralità delle città, le quali invece ci danno un valore di storia e di memoria.

J’existe parce que je me souviens (Esisto perché ricordo) dicono i francesi. Ma se questo esistere per ricordarsi viene annullato, allora non esistiamo più. E credo che gli architetti non abbiano ancora colto appieno il valore della memoria. Si sono limitati a dare dei valori tradizionali: l’economia, il costo. I veri pensieri della memoria sono assenti dal ragionamento che fanno gli architetti, che dicono: “è funzionale, è tecnicamente performante”. Ma i veri valori nascosti quali sono?

Faccio un esempio: io guardo con grande interesse il passato non solo unicamente dal punto di vista architettonico, ma spesso vedo e osservo anche le arti applicate. Giotto nella Cappella degli Scrovegni dipinge il volto di Giuda che bacia il Cristo, ed è una cosa sublime. Io ho nella mia testa quell’immagine e continuo a rivedere chi ha dipinto quel bacio, che parla di questa umanità, di una umanità che tradisce, che parla di un tradimento assoluto. Tuttavia Giotto, questo momento, questo attimo, lo ha sublimato e lo ha trasformato in un istante così forte e potente che nella storia della pittura non ha precedenti. E ancora, sempre nel campo della pittura, basta pensare ai grandi pittori: immaginiamo cosa è riuscito a dire Caravaggio sulla figura della sofferenza e sul martirio.

Ebbene, credo che gli architetti non siano stati altrettanto performanti; forse ci è riuscito un po’ Corbù quando a Ronchamp ha avuto l’umiltà di scrivere “Ave Maria”; e mi chiedo che bisogno avesse Le Corbusier di chiamare a testimone della sacralità della chiesa la Madonna, e di chiamarla – come egli stesso scrive – “una donna piena di grazia”.

A parte pochi casi, tuttavia gli architetti non sono arrivati a sublimare questa presenza che invece le altre arti hanno dato. Noi ci nutriamo dei complementi, delle addizioni della storia della pittura, e invece la storia dell’architettura spesso non riesce a sublimare questa presenza.

Per esempio c’è tutto un periodo fantastico della storia dell’architettura che è il Romanico, che parla della società, della gravità, della luce con tutti gli elementi dell’architettura. Se confrontiamo l’epoca moderna troviamo invece il disimpegno degli architetti contemporanei, che spesso considerano l’intervento unicamente se rende meglio, se è più performante, se è più veloce da costruire. Pertanto mi sembra che siano state banalizzate tutte le forme artistiche del fatto architettonico.

Mario Botta, Cappella di Santa Maria degli Angeli, Monte Tamaro, Svizzera, 1990-1996 – Schizzo

L R – Questo tuo rapporto con l’arte si fa sempre più evidente e forse consapevole.

M B – Faccio un esempio personale. Ho costruito la chiesa di Sambuceto in provincia di Chieti e poi ho avuto quasi un decennio di pausa, perché la chiesa all’esterno era completata, tuttavia non si trovavano i fondi per terminarla completamente. Nei sopralluoghi che avevo effettuato sull’edificio, ho il ricordo in particolare di una visita che mi ha profondamente segnato. Era venuto con me l’artista Ettore Spalletti; lui mi aveva accompagnato all’interno nella chiesa, taciturno, perché era sottile come la sua pittura; ha guardato un po’ dappertutto e poi m’ha detto: “no, io non te la dipingo questa chiesa. Non te la dipingo perché non me la sento. Guarda che va bene così”. Ho allora pensato, in un primo momento, che fosse un modo per defilarsi, però mi ha fatto riflettere e dopo ho pensato: che cos’era questa chiesa? Era tutta in calcestruzzo, anche all’interno, lui vedeva questo spazio e gli sembrava bellissimo, con la luce che entra zenitalmente, riteneva che fosse completa così e alla fine mi confermò che non l’avrebbe dipinta. Questo episodio però mi aveva fatto vedere qualcosa che era sfuggito a Spalletti e anche a me. Ovvero, dopo questi anni di fermo avevo compreso che era necessario dare una conclusione, un completamento. Ho riflettuto su quello che si dovesse fare, forse quel qualcosa in più di cui parlavamo prima a proposito di Giotto; tutto quel cemento armato che c’era all’interno era legato a un new brutalism che non mi apparteneva. Quindi c’era una mancanza mia, mancava il bacio di Giuda al Cristo.

Tuttavia Spalletti consigliava di lasciare tutto così, purtroppo non c’erano soldi, ma io volevo dare forma, dare colore a tutte e tre le absidi che si concludevano virtualmente, che è ciò che connota questa chiesa. 

Intravedevo una possibilità per venirne fuori, non sembrava giusto soffrire così tanto per questa mancanza. Allora mi sono detto: dunque, non ci sono i mezzi? Diamogli noi una definizione, dipingiamo la parete.

La parete dove c’era cemento è stata lisciata tutta, era tutta bianca; poi rifacendomi a Paul Klee è stato utilizzato il colore blu, con l’inserimento di mille stelle d’oro. Questa correzione in corso si è incrementata considerando che l’altare non è più un altare vero e proprio ma un’ara – come vogliono adesso –, per cui ha perso la dimensione orizzontale.

Dunque questa pausa di alcuni anni per finire la chiesa è stata necessaria e tutto alla fine è andato a buon fine. Sono riuscito a cogliere e a rimediare alla dimenticanza, o alla disinvoltura, con la quale spesso alcuni architetti avevano fatto delle chiese con gli strumenti per i garage. E penso che senza quella riflessione su Giotto, non l’avrei mai fatto. Che poi, se ci pensi bene, è l’elemento minimo che diventa massimo, un bacio, il bacio di Giuda, il bacio di un tradimento.

Questo per dirti che rispetto alla cultura di cui mi sento complice – la cultura dell’architettura in questi ultimi decenni, della quale sono stato certo protagonista ma anche protagonista nel lasciar correre – adesso a 80 anni non posso più lasciar correre e ho bisogno di sentire il meglio che qualche architetto isolato è riuscito a dare.

Mario Botta, Chiesa di San Rocco, Sambuceto (CH), Italia, 2006-2024 – Fotografia di Enrico Cano

L R – Cosa rappresenta per te il disegno di architettura? È utopia per il contemporaneo? E inoltre, il passo lento del disegno è ancora necessario per pensare e costruire architettura o è destinato, tra un render e l’altro, a scomparire progressivamente? 

M B – Il disegno – e te lo dice uno che ha vissuto una generazione che è cominciata col disegno e l’ha visto scomparire nello schermo del computer – è stato una forma di educazione alla gravità, allo spazio e alla luce, che sono le tre componenti del fatto architettonico. Non sono capace di fare a meno di questo. Lo so che gli strumenti attuali negano la presenza della matita, però si tratta di un’altra generazione: quella dei miei figli, tutti disegnano col computer. Non è un problema di sensibilità rispetto a un’eredità che loro potevano avere e che non hanno colto, no. È la storia del vivere che non esigeva questa presenza. Per me è stato un fatto educativo: disegnare è anche una cultura del lento. Disegnare è un’attività molto lenta. Disegnare è un mondo. Adesso sto facendo ad esempio una mostra su Giuliano Vangi, recentemente scomparso. Giuliano Vangi era per me un disegnatore sublime. Lui disegnava come Raffaello. È stato l’ultimo dei rinascimentali. Vangi era per me come un collega di cultura del Raffaello. Questo per dire che nel disegno si possono trovare delle declinazioni che dicono molto di più del ritratto fotografico. Ovviamente non sono contrario alla fotografia, ma vedo in questi disegni proprio l’essere di Giuliano Vangi. Il suo non è un disegno anonimo, lo riconosco come disegno proprio di questa persona. Il disegno è anche questo. Zevi diceva: “bravo disegnatore, cattivo architetto”. Io non sono d’accordo: un bravo disegnatore è anche un bravo architetto. Dopo, se non declina tutte le complessità dell’essere architetto, questo lo si può anche ammettere. Però il disegno parla delle origini del segno: innanzitutto devi avere un senso della luce che tocca l’architettura. Io sono a favore del disegno e forse anche concorde sul fatto che il computer abbia ammazzato il disegno. A breve dovrò fare una conferenza presso un’associazione della moda, un parterre quindi molto lontano, e come titolo ho dato: Mario Botta e i suoi Maestri. Dunque parlerò di disegno e parlerò di Kahn, di Le Corbusier, di Carlo Scarpa e alla fine parlerò anche di questo strapotere dell’intelligenza artificiale per la quale ho, a tal proposito, alcune considerazioni critiche.

Mario Botta, Terme Fortyseven°, Baden, Svizzera, 2008-2021 – Veduta prospettica

L R – Cosa pensi delle immagini sovra-reali costruite con l’intelligenza artificiale? Utopia o distopia del nostro tempo?

M B – La considerazione da fare è che probabilmente vincerà. Il responsabile della AI della mia università è un amico col quale abbiamo fatto crescere la facoltà. Gli ho detto: “sei vincente”, però io non mi do pace; “sei vincente in tutte le parti: finanziare, economiche, di investimento”. Però ho una critica da fare, molto puntuale e radicale: la velocità. Lo sviluppo della AI è andato avanti velocemente e ha goduto della velocità delle trasformazioni, velocità che è riconosciuta anche scientificamente come direttamente proporzionale all’oblio. Più corri e più perdi la memoria. La percezione che tu puoi avere di una cosa veloce è proporzionale all’oblio: la dimentichi. Pertanto ho detto al mio amico: è necessario che voi siate bravi a far crescere la AI, dal vostro punto di vista, perché la velocità è utile come strumento e senza la velocità la AI non può vivere, ma un domani tu dimenticherai, proporzionalmente alla velocità.

La società dei consumi, la società dell’opulenza, la società della rapidità, porta con sé degli elementi di impoverimento. Credere all’elogio della AI che fa miracoli, è credere allo stesso tempo che l’enciclopedia, così come è, fa miracoli.

Come dicevo i francesi dicono: J’existe parce que je me souviens!  Ovvero, esisto perché mi ricordo. Se tiri via anche il ricordo di ogni mestiere, il pensiero del ricordo, ritorni a quello che dicevamo prima sulla fragilità del nostro pensiero, e dunque è una cattiva scommessa puntare totalmente sulla AI, perché porta con sé tutti i malanni che noi riconosciamo: dimenticare credo sia un grave torto.

Procedendo così, ti privi di tutta la storia dell’arte e dell’umanità. E la domanda è:  attraverso l’arte, cosa ha ripetuto e cosa ha cercato di comprendere l’umanità? Di sicuro le forme espressive dell’uomo. Quindi l’arte.

Quella capacità di Giotto ad esempio – a distanza di secoli – ha commosso anche me. Perché è un atteggiamento contemporaneo, non del passato. Recentemente ho scritto che sono un privilegiato, perché ho dei vicini di casa che si chiamano Borromini, Fontana, Maderno e se faccio un viaggio un po’ più lungo, agli Scrovegni, trovo proprio Giotto. E ancora, c’è una bella frase di Carlo Dossi: nelle sue Note azzurre scrive che il carattere dominante delle architetture è dato dal contesto che colpisce l’occhio dell’artista. È una intuizione bellissima. Lui dice: attenzione architetti, non siete voi a dare il carattere dell’architettura, ma quello che sta intorno.

Mario Botta, Bechtler Museum of Modern Art, Charlotte, North Carolina, USA, 2000-2009 – Fotografia di Joel Lassiter

L R – Nelle opere disegnate dai grandi maestri del ’900, studiando i loro archivi, troviamo spesso frammenti reali e città immaginarie, architetture sognate e materia concreta, immaginari che intrecciano l’irreale con il reale. È una sorta di metaverso ante litteram in cui i sogni si confondono con la realtà?

M B – Il conservare è importante perché parla di un passato abbastanza remoto che non c’è più, quindi è una testimonianza da ricostruire e da rileggere; il passato è importante per poter essere spesso riscritto in una formula nuova. 

I disegni sono preziosissimi perché sono una forma di coscienza critica: i disegni li puoi modificare e correggere, vai per tentativi e poi torni indietro. Quindi gli archivi testimoniano questo processo dove rileggere il pensiero dell’uomo, dunque risultano fondanti.

Io mi sono messo in testa di raccogliere quello che ho fatto con sessant’anni di produzione, ma vorrei raccogliere anche i materiali delle persone che mi hanno accompagnato. Spesso ho dei periodi di innamoramento e vorrei tirare fuori quei personaggi per tutto quello che mi hanno dato, per la loro carica formativa e per la mia crescita. Ad esempio: Giovanni Pozzi, Friedrich Dürrenmatt , Niki de Saint Phalle. Per ciascuno ho un ricordo, per ciò che mi hanno dato, per il loro contributo. Come Gabriel García Márquez. A tal proposito ricordo un aneddoto su quest’ultimo: quando gli raccontai del mio viaggio in America Latina, gli incontri che avevo fatto e lo scrivere su questi momenti, lui mi disse: “questo te lo rubo e voglio scriverlo io”; poi non l’ha fatto.

Io ho rubato dappertutto; stamattina pensavo all’effetto che mi fece vedere negli anni Cinquanta Guernica esposta a Milano, a Palazzo Reale ancora in parte distrutto dalle bombe della seconda guerra mondiale. Non so perché l’ho visto, ero ragazzino, e non so ancora perché qualcuno mi aveva portato lì a vederlo. Ma l’emozione che mi ha dato Picasso, lì in mezzo alle macerie, è stata un’apoteosi. Oggi rivedere la stessa opera al Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía a Madrid resta sempre emozionante, ma forse come intensità emotiva risulta un decimo del coinvolgimento che ho avuto allora. Per dire che anche i significati, visti a 50-60 anni di distanza, cambiano di valore; adesso, non vedi la stessa opera.

Infine, una riflessione: è giusto forzare il limite del fare, nel contemporaneo, è giusto quindi insistere, altrimenti le architetture sembrano tutte simili; le chiese fatte oggi si assomigliano tutte. Sono stato recentemente alla Sagrada Familia di Gaudì. Con la Sagrada Familia non c’è grattacielo che tenga il confronto: ha una fisicità, una presenza che non è paragonabile ai grattacieli. Perché i grattacieli non rappresentano la città, sono esattamente l’opposto della città.

Mario Botta
Architetto

Intervista di / Interview by Luca Ribichini
Professore ordinario, Facoltà di Architettura, Sapienza Università di Roma

Domande a cura di Marco Maria Sambo
Segretario OAR, Direttore editoriale di AR Magazine

[Intervista pubblicata nel nuovo numero doppio della rivista ufficiale dell’Ordine degli Architetti di Roma e Provincia: 𝗔𝗥 𝗠𝗮𝗴𝗮𝘇𝗶𝗻𝗲 𝟭𝟮𝟵-𝟭𝟯𝟬 / “𝗗𝗮𝗹 𝗱𝗶𝘀𝗲𝗴𝗻𝗼 𝗮𝗹 𝗺𝗲𝘁𝗮𝘃𝗲𝗿𝘀𝗼. 𝗔𝗿𝗰𝗵𝗶𝘁𝗲𝘁𝘁𝘂𝗿𝗲 𝗶𝗺𝗺𝗮𝗴𝗶𝗻𝗮𝘁𝗲, 𝘀𝗰𝗿𝗶𝘁𝘁𝘂𝗿𝗲, 𝗹𝗶𝗻𝗴𝘂𝗮𝗴𝗴𝗶 𝗮𝗿𝘁𝗶𝗳𝗶𝗰𝗶𝗮𝗹𝗶”]

Visual editing: Giuseppe Felici

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