Comprendere la storia di un luogo per costruirne il futuro. Rafforzare l’identità urbana senza cancellarla. Favorire la nascita di buoni edifici attraverso una solida struttura di spazi pubblici. Sono questi alcuni dei principi che guidano da oltre quarant’anni il lavoro di Allies and Morrison, lo studio londinese fondato nel 1984 da Bob Allies e Graham Morrison. Un approccio che rifiuta le rotture formali e privilegia invece la continuità, la semplicità e il rigore tecnico, con un’attenzione costante alla qualità dell’ambiente urbano e al modo in cui l’architettura può contribuire, in modo silenzioso ma incisivo, alla sua trasformazione.
Bob Allies è stato il protagonista del settimo appuntamento del ciclo «Conversazioni sulla pratica del progetto», organizzato dall’Ordine degli Architetti PPC di Roma e provincia – a cura di Claudia Ricciardi, consigliera OAR -, che si è tenuto lo scorso 3 giugno presso l’Aula Magna «Adalberto Libera» del Dipartimento di Architettura dell’Università Roma Tre.
Dopo i saluti istituzionali – di Giovanni Formica, direttore del Dipartimento di Architettura Roma Tre, Alessandro Panci, Presidente OAR e di Abigail Brundin, direttrice British School at Roma (Bsr) – e l’introduzione di Lucia Nucci, professoressa associata Roma Tre, Allies ha tenuto una lecture incentrata sui temi della rigenerazione urbana, delle trasformazioni su scala metropolitana e dell’adattamento progettuale a contesti climatici e culturali differenti. Tra i casi studio presentati, il masterplan di King’s Cross a Londra, il London College of Fashion (Lcf) e il progetto Msheireb Downtown Doha, esempi di come l’architettura possa operare con consapevolezza storica e sostenibilità sia ambientale che sociale. A chiusura dell’evento – dopo la conversazione con Claudia Ricciardi, consigliera OAR con delega ai concorsi, incentrata su una riflessione sullo strumento del concorso di progettazione – il consueto dialogo critico con l’architetta e ricercatrice Margherita Erbani.
«Il nostro studio è sempre stato interessato alla relazione tra un nuovo edificio, o una nuova proposta urbana, e la condizione del sito prima del nostro intervento. Crediamo sia molto importante cercare davvero di comprendere la storia del luogo, non solo per curiosità, ma perché siamo convinti che, se la si comprende bene, ci sono maggiori probabilità di formulare una proposta che sia in sintonia con essa, che ne rafforzi le qualità e contribuisca a farla durare». Così Bob Allies apre al sua intervista – concessa alla Redazione OAR – illustrando la sua idea di «continuità» nell’architettura contemporanea. «In altre parole, ci piace che i nostri edifici e i nostri masterplan svolgano un ruolo nella città. E il ruolo che vorremmo avessero è quello di rafforzare ciò che esiste, migliorarlo, e non quello di porsi in contrapposizione. In altre parole, puntiamo a far parte della città».
Qui la video intervista integrale a Bob Allies
In molti dei vostri progetti la rigenerazione urbana (come nel masterplan di King’s Cross a Londra) ha un ruolo centrale. Secondo lei, qual è il ruolo dell’architetto nella trasformazione di aree urbane complesse?
Bob Allies: Negli ultimi vent’anni, Londra ha visto nascere numerosi progetti di rigenerazione. Spesso si tratta di aree precedentemente destinate all’industria, alle ferrovie o situate in valli fluviali. Tutte queste aree stanno cambiando perché le funzioni originarie sono diventate obsolete. Rigenerarle o rioccuparle richiede un nuovo intervento che va oltre una semplice proposta di ripartizione funzionale: serve una proposta fisica che includa, cosa molto importante, la comprensione di come gli edifici possano funzionare in quel contesto. Noi siamo architetti per formazione, non urbanisti. Ma credo che quello che portiamo in questi progetti sia proprio la comprensione del funzionamento degli edifici, e cerchiamo di sviluppare i nostri masterplan a partire da questi vincoli positivi. Direi che il nostro obiettivo è creare le condizioni affinché possano nascere buoni edifici, inseriti in una sequenza di spazi esterni, o “stanze urbane”, che noi, in qualità di progettisti del masterplan, cerchiamo di definire.
Come si sviluppa il processo progettuale all’interno di Allies and Morrison? È più guidato da un approccio collettivo o da visioni individuali che poi vengono integrate?
B.A.: Fin da quando Graham Morrison ed io abbiamo fondato lo studio, il design si è sempre sviluppato come una conversazione: inizialmente tra noi due, poi estesa ai primi collaboratori e, successivamente, ai partner. Per la maggior parte della vita dello studio, abbiamo lavorato così. Il progetto nasceva dal confronto, dalla discussione, a cui tutti potevano contribuire. Il nostro ruolo, come fondatori, era dare una direzione generale, un senso al lavoro. Con il tempo, ovviamente, lo studio è diventato più complesso e oggi ci sono persone che lavorano anche in diverse parti del mondo. Quindi, non influenziamo più direttamente ogni processo. Ma mi piace pensare che, ancora oggi, il modo di lavorare non si basi su visioni o speculazioni individuali, bensì sulla condivisione di idee e sul dibattito su come svilupparle al meglio.
4. In progetti internazionali come Msheireb Downtown Doha avete operato in contesti culturali molto diversi da quello britannico. Come cambia il vostro approccio progettuale in questi casi? In generale, come affrontate il tema della sostenibilità, non solo ambientale, ma anche sociale e culturale?
B.A.: Quando abbiamo iniziato a lavorare a Doha, nel progetto Msheireb – sviluppato con Arup e Aecom – ci siamo trovati di fronte a un ambiente molto diverso, soprattutto per il microclima. Anche se abbiamo portato parte del nostro approccio londinese, a Doha volevamo creare un luogo di tipo molto diverso. Un luogo dove le persone potessero camminare e stare all’aperto, ma per farlo era necessario pensare a spazi molto più protetti dal sole, attraversabili da venti naturali. L’architettura doveva rispondere a questo clima estremamente caldo. Molti edifici hanno colonnati per proteggere i passanti, e anche quelli che non li hanno devono comunque fornire ombreggiamento tramite le facciate. Questo è stato ottenuto attraverso il design coding: abbiamo stabilito parametri progettuali vincolanti per gli architetti degli edifici. Credo che questo approccio sia molto interessante: tramite il design coding, legato alla performance climatica, si può generare un’architettura coerente senza imporre uno stile estetico. A Doha abbiamo anche definito materiali e dettagli architettonici, ma ciò che ci affascina è la possibilità di codificare la sostenibilità in modo che emerga quasi una sorta di “linguaggio comune” tra tutti gli edifici.
5. Guardando ai vostri progetti più recenti e futuri, quali sono i temi che secondo lei l’architettura dovrebbe affrontare con maggiore decisione nei prossimi anni?
B.A.: Guardando indietro ai nostri quarant’anni di attività, mi rendo conto che gli architetti si trovano ad affrontare nuove questioni ciclicamente. Arrivano a ondate e ci spingono a cambiare il nostro modo di operare. In questo momento è chiaro che l’emergenza climatica sta cambiando il modo in cui pensiamo, progettiamo gli edifici, riflettiamo su quelli esistenti e sulla possibilità di conservarli. Sono temi di enorme importanza. Ma, alla fine, l’architetto deve comunque prendere decisioni: sulla forma, sui dettagli, sulle facciate. E queste sono questioni compositive. Dobbiamo confrontarci con il modo in cui facciamo le cose, e fare delle proposte fisiche. Vorrei che in futuro la professione non dimenticasse questo aspetto, non si lasciasse distrarre del tutto da temi che, sebbene fondamentali, rischiano di farci perdere di vista le nostre competenze specifiche. Mi piace che si parli di “pratica” dell’architettura: come in altri ambiti, è un processo continuo, in cui si affinano le competenze lentamente, riflettendo su ciò che si è fatto e cercando di migliorare. Nell’architettura ci sono ancora molte lezioni da imparare, sia per chi inizia ora, sia per chi, come me, continua dopo tanti anni.
Dopo la lecture, il dialogo critico con Margherita Erbani, architetta e ricercatrice, fondatrice del collettivo di ricerca e progettazione Archibloom e attualmente componente del Laboratorio Roma 050, ha offerto spunti preziosi per riflettere sul rapporto tra progetto e società contemporanea. «I modelli sviluppati dallo studio londinese – attento alla dimensione culturale, sociale e climatica della trasformazione urbana – rappresentano un riferimento importante per chiunque operi oggi nel campo della progettazione architettonica», ha detto Erbani.
Qui la video riflessione di Margherita Erbani
Il ciclo di appuntamenti con gli studi interazionali – osservatorio dinamico sulla pratica del progetto, intesa non solo come esercizio formale, ma come strumento critico e operativo per comprendere e orientare le trasformazioni delle nostre città – prosegue il prossimo 12 giugno con l’incontro con Sergei Tchoban, fondatore dello studio Tchoban Voss Architekten, in dialogo con la giovane ricercatrice ed architetta Michela Carla Falcone. (FN)