Progetti come biblioteche e scuole pubbliche – a Medellín e non solo – usati come motori di trasformazione urbana e coesione sociale, soprattutto in aree marginalizzate, con una riflessione sull’architettura rispetto al ruolo della dimensione sociale e comunitaria nei progetti architettonici. Sono alcuni dei temi centrali per Giancarlo Mazzanti, architetto e professore colombo-italiano, noto – tra l’altro – per le sue ricerche ed opere, più volte premiate, che concentrano sul gioco e sul suo legame con l’architettura quale meccanismo di trasformazione sociale.
La sua lecture – tenutasi lo scorso 25 giugno alla Casa dell’Architettura, in occasione della giornata di chiusura di FAR 25 (LINK), il Festival dell’Architettura di Roma organizzato dall’OAR – è stato anche l’ultimo appuntamento dei ciclo «Conversazioni sulla pratica del progetto» (qui per saperne di più LINK; sul sito web dell’OAR tutti gli articoli degli incontri), a cura di Claudia Ricciardi, consigliera OAR, che ha promosso il racconto del progetto di architettura – inteso come ricerca, sperimentazione spaziale e indagine figurativa – attraverso una serie di lecture che hanno coinvolto architetti internazionali. Al solito, in linea con il format che ha caratterizzato il ciclo, dopo la lecture, c’è stato il dialogo critico – momento di riflessione attraverso il confronto – con Daniele Frediani, architetto e ricercartore.
«Lavoro principalmente su progetti di carattere pubblico, sia in Colombia che in Italia – ha affermato Mazzanti, illustrando il proprio approccio progettuale. Mi piace – ha proseguito – citando un pensiero del filosofo Carlo Sini: ‘L’arte non è soltanto una questione di bellezza o estetica: l’arte è fondare comunità’. Ecco, per me questo è anche il ruolo principale dell’architettura: creare legami, mettere insieme persone diverse e farle imparare a vivere insieme, accettandosi nelle proprie differenze». L’architettura – dunque – «non può essere fine a sé stessa. Si costruisce attraverso i suoi elementi materiali, certo, ma il suo vero scopo è generare convivenza, qualità della vita, relazioni tra persone e con la natura. Oggi, più che mai, in un contesto segnato dal cambiamento climatico, è fondamentale che l’architettura produca impatti positivi sul piano sociale e ambientale».
Qui la video intervista e, a seguire, la trascrizione integrale
Crede che il ruolo dell’architetto debba assumere una crescente responsabilità sociale e politica? Come coinvolge gli utenti nei progetti: crede nella progettazione partecipativa?
Alla fine, l’architettura la fanno gli utenti, non gli architetti. È un processo vivo. In un libro che ho recentemente pubblicato in spagnolo a Madrid – e che sarà presto tradotto anche in italiano – parlo di un concetto chiave: la performatività. Per me è la capacità degli individui di trasformare lo spazio in cui vivono, di appropriarsene. È una relazione attiva tra architettura e persone, un po’ come avviene nell’arte contemporanea. Nel nostro studio abbiamo creato una fondazione che si chiama Horizontal, attraverso cui promuoviamo progettazione partecipata e sociale, lavorando con le comunità con workshop. Non puoi semplicemente arrivare in un quartiere e chiedere: ‘Cosa volete?’. Le risposte rischiano di essere condizionate da stereotipi o desideri indotti. Il ‘gioco’, in particolare, aiuta ad accedere ai bisogni profondi, a comprendere meglio le dinamiche interne di una comunità. È uno strumento potente per la progettazione condivisa.
Nel suo ultimo libro, appunto, riflette sul gioco come meccanismo di trasformazione sociale…
L’architettura, come dicevo prima, ha come scopo principale quello di favorire la vita sociale e l’inclusione. L’ultimo libro che ho scritto è proprio una critica all’idea che l’efficienza e la funzionalità siano gli unici criteri validi per progettare. Il titolo è ìIl gioco come funzione architettonica’, ma non parlo del gioco in senso infantile: il gioco è una cosa molto seria. Il libro si apre con un testo di Georges Bataille che distingue tra homo faber, che ha costruito strumenti e il concetto di efficacia, e homo sapiens, che ha scoperto il gioco, e quindi l’arte e la creatività. Senza gioco non c’è arte. E senza creatività non c’è vera architettura. Pensiamo, ad esempio, a una scuola. Per un bambino non è importante solo arrivare da un’aula all’altra nel modo più veloce. Ciò che conta è come si muove nello spazio, come lo esplora, come lo vive. Il gioco introduce nuove modalità d’uso degli edifici, nuove forme di relazione. Ed è lì che l’architettura diventa veramente generativa, trasformativa.
La Biblioteca España – un delle sue opere più famose – è diventata un’icona urbana a Medellín. Qual era il suo obiettivo progettuale? Come ha costruito un’architettura di inclusione sociale?
La Biblioteca España è il simbolo di un progetto politico più ampio, avviato dall’ex sindaco Sergio Fajardo. Io e il mio studio abbiamo collaborato, insieme ad altri architetti e urbanisti, a un programma che chiamavamo Progetto Urbano Integrato. L’idea era semplice: un singolo edificio non cambia da solo una comunità, ma può far parte di una trasformazione più grande. In questo caso abbiamo lavorato su più livelli: progettazione architettonica, spazio pubblico, educazione e partecipazione. Abbiamo coinvolto l’amministrazione e la cittadinanza, costruendo insieme una visione. La biblioteca è diventata il simbolo visibile, ma l’intervento ha incluso molti altri elementi. L’obiettivo era promuovere apprendimento, inclusione e vita collettiva.
Nel dialogo critico con Daniele Frediani, architetto e ricercatore, si è riflettuto sull’approccio progettuale dell’architetto colombo-italianonoto, connotato dalla forte carica sociale e simbolica, esempio concreto di come l’architettura possa essere motore di cambiamento. «Mazzanti – afferma – è sempre una voce preziosa da ascoltare, perché con i suoi numerosi e bellissimi progetti ci insegna qualcosa che va oltre l’estetica o la tecnica: ci ricorda che l’architettura è uno strumento per cambiare il mondo, un pezzo alla volta. Ogni suo intervento – ma potremmo dire ogni progetto, anche il nostro – ha il potere di costruire un frammento di mondo migliore. È così, passo dopo passo, che possiamo trasformare non solo l’architettura stessa, ma anche la città, la società e persino il ruolo dell’architetto. E poi, soprattutto, Mazzanti ci parla di architettura come atto ludico. Ci ricorda che progettare può – e forse deve – essere anche divertente. È una verità semplice ma spesso dimenticata: il nostro mestiere è anche un gioco, un esercizio di creatività e immaginazione. Attraverso il suo metodo, i suoi progetti e il libro che ha recentemente pubblicato, ci invita a riscoprire il motivo per cui abbiamo scelto di fare questo lavoro. Il più bello del mondo».
Qui la video riflessione con Daniele Frediani
(FN)
Video interviste di Francesco Nariello
Fotografie di Daniele Raffaelli