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01 Maggio 2021

Roma capitale – di Carmelo G. Severino

Il 3 febbraio 1871 i “provvedimenti per la traslocazione” della sede del governo da Firenze a Roma, approvati il 23 dicembre 1870 alla Camera dei deputati ed il 26 gennaio 1871 al Senato del regno, entrano ufficialmente in vigore. In questa data quindi Roma, non più città dei papi, viene ufficialmente dichiarata dal Parlamento italiano nuova capitale del regno d’Italia ed in quanto tale sede del governo e delle istituzioni: quindi Presidenza del Consiglio, ministeri, organi legislativi della Camera dei Deputati e Camera Alta, alti comandi militari e supremi organi giudiziari.

Il 3 febbraio 2021, dunque, ricorre il 150° anno di questo importante passaggio istituzionale e data l’importanza che esso riveste ancora oggi, pensiamo che sia opportuno e necessario, oltre che procedere a commemorazioni e festeggiamenti, cercare di ricostruire quegli avvenimenti lontani per rivedere quali furono i delicati rapporti che sin da allora si istituirono tra Roma assurta al rango di città capitale del regno d’Italia e le autorità di governo dello Stato centrale. 

20 settembre 1870: Roma è finalmente italiana. Non sono passati dieci anni da quel 25 marzo 1861 in cui Camillo Benso conte di Cavour, nella sua qualità di presidente del Consiglio dei ministri del giovane regno d’Italia, parlando a Torino alla Camera dei deputati, profondamente convinto dell’importanza di Roma capitale ebbe a dire come la scelta di Roma scaturisse da grandi ragioni morali e come la storia di Roma altro non fosse“che la storia di una città (…) destinata ad essere la capitale”.

Il sogno di Cavour si è quindi avverato: dopo anni di diplomatici tatticismi ed apparenti rinunce il 20 settembre 1870, l’Italia sabauda, con un atto di forza, imponendosi come Stato laico e sovrano, ha infine abbattuto il millenario potere temporale dei pontefici impossessandosi militarmente della città. E con Roma diventata finalmente italiana, il giovane Stato non soltanto ritrova la sua capitale ma porta a compimento anche quel processo di secolarizzazione degli stati europei iniziatosi con la Rivoluzione francese e con Napoleone Bonaparte.

Scomparso da tempo lo statista piemontese, il Governo italiano si dimostra adesso del tutto impreparato ad accompagnare Roma nel difficile compito di formazione e costruzione nel nuovo ruolo di città capitale, anzi i rapporti tra Stato e Campidoglio si dimostrano spesso improntati ad estrema diffidenza rendendo ancora più difficile e limitata la già modesta capacità di indirizzo dei diversi poteri pubblici.

Conquistata Roma alla causa nazionale ed inserita la città nella struttura istituzionale dello Stato italiano con il rango di capitale, gli interessi delle classi dirigenti risorgimentali, soprattutto delle regioni settentrionali, spingono perché Roma non diventi un polo di sviluppo industriale, potenzialmente concorrente alle manifatture delle loro industrie.

Roma non è attrezzata per svolgere la sua nuova funzione di città capitale, ma possiede comunque palazzi, edifici monastici e conventi, vestigia di un passato ricco di memorie e grandi splendori, che possono essere ristrutturati per ospitare le sedi della pubblica amministrazione, gli alloggiamenti militari, le scuole e tutti gli altri servizi urbani di cui necessariamente ha bisogno la capitale di uno stato moderno nell’Europa di fine Ottocento

Quintino Sella ministro delle Finanze nel governo di Giovanni Lanza, dal dicembre 1869 al luglio 1873, è uno dei pochi politici di rango nazionale che dimostra di avere una visione alta del ruolo di Roma. Per l’autorevole rappresentante della Destra storica, infatti, Roma deve continuare ad essere “il simbolo di tutta quanta l’idea nazionale e innovatrice che ha guidato il Risorgimento italiano”.

Con la conclusione della lotta risorgimentale per l’Unità nazionale inizia la fase nuova della costruzione dello Stato unitario, liberale e borghese e prende avvio il problema del ruolo e del rango che Roma capitale deve occupare nella geografia urbana nazionale con una classe politica che nella stragrande maggioranza aveva subìto più che voluto Roma capitale. La città, infatti, superando la concorrenza delle altre città italiane – di Torino (vera capitale politica e amministrativa), di Milano (emergente sul piano economico e sociale), di Firenze (ideale centro geografico della penisola) e di Napoli (prima città per demografia ed urbanistica) – diviene la capitale dell’Italia unita non per un primato acquisito sul campo ma per un mero disegno politico che vuole utilizzare il valore simbolico di Roma per superare i diversi municipalismi, il necessario supporto alla fragilità di un edificio statale post-risorgimentale, “militarmente debole, finanziariamente dissestato e territorialmente sbilanciato”, quasi il solo “elemento di solidità e certezza alla neonata Italia”.

Monumento nazionale a Vittorio Emanuele II o (Mole del) Vittoriano, Roma, 1885-1935 | Fonte: https://www.maxxi.art/

Roma, con la capitolazione pontificia, si ritrova quindi a passare improvvisamente da capitale di un piccolo Stato ecclesiastico a capitale di un grande Stato laico. Non essendo stata la forza motrice del Risorgimento italiano, né avendo una posizione economica dominante né una classe dirigente d’avanguardia, la città inevitabilmente trova difficoltà a proporsi come forza propulsiva del nuovo Stato, diviso tra regioni settentrionali più sviluppate, con una borghesia urbana egemonica e regioni meridionali arretrate, con una borghesia ancora rurale.

Lo Stato, ancora provato dalle ingentissime spese sostenute per le guerre d’Indipendenza, per reperire le risorse finanziarie si limita a fare approvare in Parlamento, il 16 giugno 1871, una legge per autorizzare l’operazione di anticipo da parte della Banca nazionale per il regno d’Italia a favore dell’amministrazione comunale. Ed è questa l’unica agevolazione che il Governo concede alla città per realizzare le opere necessarie alla nuova funzione di capitale del regno. Il Campidoglio si vede quindi obbligato a contrarre in più riprese, nel 1873 e nel 1876, prestiti con gli istituti di credito ed in tal modo Roma riuscirà ad avviare un programma di modernizzazione delle sue strutture, ma si indebiterà notevolmente per le difficoltà di natura finanziaria nelle quali gli amministratori si troveranno a destreggiare. Nel primo decennio di Roma capitale, sono stati spesi tra 176 e 186 milioni di lire per le urbanizzazioni e le opere edilizie all’interno delle Mura Aureliane. Lo Stato, però, non vi ha contribuito che in minima parte perché per il 57% sono stati finanziamenti privati e quasi un terzo è stato a carico del Comune – questi ultimi finanziati con mutui che hanno lasciato alla città un forte passivo. Gli amministratori capitolini, più volte, solleciteranno il Governo perché lo Stato contribuisca alla costruzione della sua capitale, ma ogni richiesta resterà inascoltata. Opinione diffusa tra gli uomini della Destra al governo, infatti, è che “il titolo di Capitale” sia “piuttosto origine di lucro che di dispendio”, come dirà ancora nel 1875 al sindaco Pietro Venturi il ministro Marco Minghetti. Essere la capitale del regno avrebbe dovuto costituire un onore tale da comportare sacrifici finanziari ai cittadini romani per dotare la città delle opere pubbliche necessarie a svolgere tale funzione privilegiata. Soltanto nel 1878 la Giunta capitolina, sindaco Luigi Pianciani, avrà finalmente modo di presentare al Governo l’elenco delle opere e dei servizi considerati indispensabili per la funzione di capitale.

Il 12 maggio 1879 il presidente del Consiglio Agostino Depretis, per la prima volta, sosterrà pubblicamente in Parlamento la necessità di prevedere fondi per Roma nel bilancio statale e soltanto il 27 settembre 1880, sindaco Augusto Armellini, il Consiglio comunale avrà modo di adottare lo schema di convenzione relativo a tali opere pubbliche con la richiesta del concorso pubblico dello Stato“per assicurare (…) l’eseguimento delle opere di ingrandimento edilizie più importanti di cui ha bisogno la capitale del Regno”.

Nel novembre 1880 il presidente del Consiglio Benedetto Cairoli presenta alla Camera dei deputati la proposta per fronteggiare la grave situazione delle finanze romane, che dopo un vivace dibattito costituisce la tanto attesa legge speciale per Roma capitale. Con la legge 209/1881, infatti, il Governo si impegna a fornire al Comune 50 milioni – 2,5 milioni di lire l’anno per 20 anni – per l’attuazione del Piano edilizio regolatore e di ampliamento della capitale del regno, e la realizzazione di alcune importanti opere pubbliche.

Nel luglio 1883, con una seconda legge, lo Stato garantirà un ulteriore prestito di 150 milioni destinato a realizzare le opere pubbliche. Gli effetti della nuova legge sono talmente positivi che per la prima volta, nel 1884, il Comune riesce a chiudere in pareggio il bilancio, nonostante tardi ad usufruire del concorso governativo per i lavori di competenza comunale ed abbia anticipato diversi milioni per i lavori di competenza del Governo.

Oggi, dopo 150 anni di vita nazionale, nonostante qualche sporadico tentativo da parte del Parlamento di fare confluire sulla città quelle risorse economiche necessarie a farle svolgere al meglio la funzione di capitale politica della Nazione, Roma “capitale malamata” per citare un recente saggio di Vittorio Emiliani, continua a non vedere pienamente riconosciuta la particolarità della sua condizione di città capitale nel panorama urbano nazionale, anche a causa di un perdurante pregiudizio di parte del Paese nei suoi confronti, soprattutto da parte delle regioni del nord Italia. 

Carmelo G. Severino
Architetto 


Nell’immagine di copertina: La breccia di Porta Pia in una foto dell’epoca (Carlomorino/Wikimedia Commons) | Fonte: https://www.ilpost.it/2018/09/20/20-settembre-xx-settembre-1870/

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