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Architettura
11 Ottobre 2020

Spam Transition. L’ultima parola spetta alla storia. E anche il colore può essere materia di progetto

Di Redazione OAR

Quali sono i confini tra temporaneo e permanente, quiete e dinamismo, cambiamento e tradizione? Queste le domande della terza giornata di Spam 2020 incentrata sul binomio “Living & Transition”. Un focus sulle interconnessioni tra architettura e tempo, senza dimenticare che l’ultima parola spetta alla storia. Pensiamo alla Torre Eiffel di Parigi o al Padiglione di Mies Van Der Rohe di Barcellona, ideati e costruiti come opere temporanee e divenuti poi monumenti, o ancora ai moduli abitativi sorti in emergenza e poi divenuti stabili.

“Le città sono fatte per l’uomo senza il quale assomigliano più all’idea di un parco archeologico – racconta Teresa Sapey, architetto italiano che da anni ha fondato il suo studio in Spagna – imperfette sì, ma sempre mutanti e flessibili, con la capacità di espandersi e contrarsi per modificarsi con la vita, nell’intento di rispondere alle necessità dell’uomo di oggi e di domani”. Una definizione di ambiente urbano come organismo in divenire, senza dimenticare le piccole scale del progetto.

“Agli architetti dobbiamo spiegare che un progetto piccolo è comunque meritevole – precisa Sapey – a differenza dell’artista che lavora in solitaria ed è più libero, che produce e vende senza filtro, l’architetto ha bisogno di un cliente che influisce nelle scelte economiche, funzionali e formali”. Una visione del progetto imprescindibile dai NEEDS, profondamente calato nell’oggi, con un occhio che allunga lo sguardo al domani.

“Il Living & Transition è anche un sapersi perdonare – commenta Sapey, chiamata Madame Parking per la sua esperienza nel rendere insospettabili spazi delle opere di pop e land art. Non tutto ciò che è passato ha il diritto di sopravvivere all’oggi ed essere chiamato storico. Diamoci la possibilità di costruire e creare architettura oggi, che diventi storia di domani. Preferisco l’errore a causa della velocità che la lentezza in nome di una perfezione che poi è sempre opinabile”.

L’architettura nel tempo si è aperta sempre più alla transizione seguendo la scia di un’esistenza sempre più votata all’accelerazione ed alla globalizzazione. L’esperienza Covid ha ghiacciato questa mobilità frenetica che ci aveva educato all’attimo ed al contingente. “Non abbiamo smesso di muoverci, ma abbiamo viaggiato virtualmente e presto riviaggeremo – precisa Sapey – In questo momento di cambiamento abbiamo riscoperto il viaggio nella stanza, nella casa, nel palazzo, nel quartiere, nella città e nel nostro Paese. Ci siamo liberati dallo stress di dover percorrere forzatamente decine di migliaia di chilometri, riscoprendo anche così chi siamo davvero”.

Un apparente tentativo di fissare e fossilizzare la realtà è nella fotografia. “L’architetto si pone nei confronti della fotografia, così come della città, attraverso un confronto metodologicamente aperto – osserva Orazio Carpenzano, uno dei responsabili del workshop di Spam 2020 (link) – L’immagine catturata dall’obiettivo diviene luogo cinico e crudele in cui la realtà si presenta e rappresenta”.

Leonardo Finotti, architetto ed artista visivo brasiliano, intento ad indagare l’architettura contemporanea attraverso la macchina fotografica, confessa: “La fotografia è qualcosa di molto naturale, è un’estensione del corpo come il nostro occhio, non è manipolazione. Voglio guardare le cose per come si presentano. Mi interessa scoprire e ricercare le cose per come sono effettivamente, senza speculazioni. Non voglio essere strumento in mano all’architettura che si vuole autopromuovere”.

Apparentemente, quindi, un’arte opposta alla transizione, tema centrale della giornata Spam2020. “Non è proprio così – ribatte Leonardo Finotti dal Brasile “La fotografia è come guardare al passato e poi di nuovo verso il futuro. Camminare verso nuove direzioni e tutte nello stesso momento”.

“Vivere in transizione o no, ma sempre con colore – conclude Teresa Sapey – Siamo figli del nostro tempo e l’architettura deve essere ancorata alle radici locali o, ancor più, parlare la lingua ed il dialetto. La nostra cultura ha sempre utilizzato il colore: pensiamo a Pompei o ai pittogrammi. Gli eschimesi hanno circa sessanta termini per descrivere le varie sfumature del bianco, che il colore che più hanno davanti agli occhi. Il colore è materia piuttosto che decorazione, è spazio più che estetica e necessario per nascondere quelle che io chiamo le budella dell’edificio”.

Rivedi le giornate di #SpamNeeds sul sito OAR: link

(GV)

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