Restituire centralità alle persone, alle comunità e ai contesti, con progetti che nascono dall’ascolto e dalla partecipazione, e restituiscono dignità allo spazio abitato come forma primaria di cura e convivenza. Sono gli elementi centrali dell’approccio di Tatiana Bilbao, architetta messicana tra le più influenti a livello internazionale: dalla scala domestica ai paesaggi più ampi, trasmette una visione dell’architettura come mezzo per «proteggere la vita e ispirarla a crescere», mettendo in discussione ogni separazione tra etica, estetica e politica. Nel 2004 ha fondato Tatiana Bilbao Estudio, noto per i suoi progetti socialmente orientati, come le case «low-cost» realizzate per le comunità rurali in Messico, il Pilgrim Route Shelter lungo la via di pellegrinaggio per Real de Catorce, e la Casa Ventura a Monterrey, esempio di architettura flessibile e legata al paesaggio. Il suo lavoro, improntato a una visione radicalmente collettiva e inclusiva, propone un modello di progettazione profondamente alternativo a quello dominante: flessibile, non standardizzato, capace di rispondere in modo specifico e concreto ai bisogni delle persone.
Nella intervista che segue – sia nella sua versione integrale video che in forma trascritta – realizzata lo scorso 25 giugno, nella giornata conclusiva di FAR 25 – il Festival dell’architettura di Roma organizzato dall’OAR (LINK) – Bilbao riflette sul potere trasformativo dell’architettura, sul valore del gioco come dispositivo creativo e cognitivo, sull’urgenza di «ripensare la città oltre il dominio del capitale». Le sue parole sono un invito a rimettere al centro il senso sociale e collettivo del progetto.
Qui la video intervista a Tatiana Bilbao
Nei suoi progetti, l’edificio appare sempre parte di una più ampia narrazione urbana e sociale. Cosa significa per lei progettare “dal micro al macro”, dalla vita quotidiana al contesto urbano?
Crediamo che l’architettura sia una forma primaria di cura del corpo. Per questo progettiamo strutture che possano realmente essere considerate corpi capaci di esistere su questo pianeta. Pensiamo all’architettura come a un mezzo che permette all’essere umano non solo di abitare la Terra, ma anche di svilupparsi, crescere.Per noi, progettare qualcosa di molto piccolo o molto grande è la stessa cosa. Si tratta sempre di comprendere come si vive, per proteggere quella vita e ispirarla a evolversi. Il nostro lavoro nasce dal corpo, dalla sua storia nel tempo, e si sviluppa attraverso i racconti che lo accompagnano.
La sua architettura è nota per l’attenzione alla vita reale, alle persone e alle comunità. I suoi progetti di edilizia abitativa «low-cost» hanno avuto ampio riconoscimento. Che ruolo gioca l’abitare come fondamento per una riflessione più ampia sulla città e l’inclusione sociale?
Comprendo profondamente la responsabilità dell’architettura. Ogni singolo intervento che inseriamo in un contesto contribuisce a definire l’ambiente costruito nel suo insieme. Se non comprendiamo che anche una piccola architettura partecipa alla costruzione del contesto collettivo, perdiamo il senso del potere trasformativo dell’architettura. La città, ad esempio, è la somma delle sue parti: ogni parte conta, e ciascuna determina le relazioni tra le altre. Per questo progettare gli elementi più essenziali della città, dove vivono le persone più fragili, significa progettare per l’intero collettivo. Riteniamo davvero che l’architettura sia una forma primaria di cura e, per questo, ci rivolgiamo sempre a chi ha più bisogno di spazi da abitare per crescere e vivere pienamente nel mondo.
Nel progetto per il Pilgrim Route Shelter ha affrontato i temi del paesaggio e dell’architettura minimale. In che modo questo tipo di intervento contribuisce a una più ampia idea di spazio pubblico e territorio?
Nel progetto della Pilgrim Route, abbiamo lavorato su piccole architetture disseminate in un paesaggio straordinario. Anche se sembrano interventi minuti, in realtà si inseriscono lungo un percorso di oltre cento chilometri. Abbiamo progettato questi spazi insieme ad altri architetti, immaginandoli come punti di sosta, incontro e riferimento per i pellegrini. Questo ritmo scandisce il cammino, rafforza l’identità del percorso e favorisce una relazione più profonda con il paesaggio e il rito stesso del pellegrinaggio. Più che essere spazi pubblici nel senso tradizionale, queste architetture minime sostengono un rituale umano millenario, servendo da luoghi di socialità, obiettivi simbolici e riferimenti culturali lungo il cammino.
Il concetto di città è spesso dominato da logiche economiche e di standardizzazione. Quale può essere, secondo lei, il contributo etico e politico dell’architettura in questo contesto?
Oggi l’architettura è spesso asservita al capitale. La sua vera funzione – essere il mezzo che ci consente di abitare il pianeta – è stata relegata a un ruolo subordinato rispetto al potere economico. Il capitale, oggi, espelle le persone dalle città, determinando chi può abitarle e come. I centri urbani sono stati svuotati dalla vita sociale, ridotti a spazi dominati dal controllo e dal profitto. Questo è un problema serio. L’architettura sta perdendo la sua capacità di incidere, ma proprio per questo dobbiamo agire. Dobbiamo rifondare la condizione dell’architettura come bene comune, non come merce, e restituirle il suo ruolo di strumento essenziale per la vita collettiva. Mi chiedo: cosa accadrà quando non ci sarà più nessuno a “vedere” o “abitare” le città svuotate dal capitale? Questo è il punto di crisi da cui dobbiamo ripartire.
Il suo studio lavora spesso con modelli flessibili, collaborativi e inclusivi. Crede che questo approccio possa essere un’alternativa realistica agli strumenti tradizionali della pianificazione urbana?
Nel nostro studio lavoriamo in modo collaborativo per una ragione fondamentale: l’architettura è sempre un atto collettivo, che lo si accetti o no. L’idea del «genio solitario» che progetta da solo non è mai stata vera. L’architettura nasce da molte menti, molte mani, da un sapere condiviso che si costruisce nel tempo: ascoltando, leggendo, vivendo la città. Questa è una realtà che scegliamo di accogliere con consapevolezza, aprendo il dialogo e includendo il maggior numero possibile di prospettive. Così si creano spazi più inclusivi e democratici. Se progettiamo con molte voci, permettiamo a molte più persone di riconoscersi e abitare quei luoghi. Nel nostro contesto, questo approccio è anche una condizione concreta. Città del Messico, ad esempio, è stata costruita dalla sua gente e continua a esserlo. Qui la pianificazione non è preventiva, ma una risposta a ciò che le persone hanno già costruito. Anche nel centro storico, le trasformazioni avvengono dal basso. Credo che questo modello di produzione sociale dello spazio sia replicabile anche in altri contesti. A Roma, ad esempio, accade qualcosa di simile: la storia, le preesistenze e le stratificazioni impongono una forma di pianificazione che si adatta e risponde a ciò che già esiste. Quello che serve è accettare il pensiero collettivo sullo spazio, senza imporre un’unica visione rigida e standardizzata. (FN)
Video intervista di Francesco Nariello
Fotografie di Daniele Raffaelli